La Cina popolare, dopo una lunga fase di estremismo guidato da Mao Zedong, entrò, dopo la morte del leader, in un periodo di profonde trasformazioni (situazione in cui si trova tuttora). Il momento dell’avvio delle riforme coincise con l’ascesa al potere di Deng Xiaoping, anch’egli veterano della lunga marcia, come il suo precursore Mao, ma suo veemente oppositore, insieme a Liu Shaoqi durante gli anni della Grande rivoluzione culturale proletaria, nata in seno al gruppo dirigente del partito.
Mentre la linea politica maoista era stata prevalentemente autarchica, Deng optò per una strategia occidentalista, che guardava a modelli dell’occidente.
Il momento storico in cui questa strategia si affermò fu nel dicembre del 1978, quando, durante il terzo plenum del’XI Congresso del Partito comunista, si riconobbe a pieno titolo la proprietà privata. Questa riforma fu di notevole impatto: Deng Xiaoping sostenne infatti che per garantire la democrazia popolare fosse necessario un nuovo sistema che garantisse stabilità e continuità. Il cosiddetto “nuovo corso” denghista prevedeva l’attuazione di riforme in campo economico grazie ad una parziale liberalizzazione dei fattori produttivi ed ad una inedita apertura agli investimenti stranieri.
Per ottenere questi risultati, però, si rendeva necessario un ordinamento giuridico in grado di regolarizzare la vita economica e sociale cinese, in modo da presentare la Cina come paese credibile per investimenti esteri. La riforma giuridica in materia civilistica fu gestita mediante l’emissione di leggi che gradualmente sono andate poi a confluire nel 1986 in un nuovo codice civile ed i cui principi generali erano una diretta eredità della legislazione nazionalistica del Guomindang, la quale, a sua volta, si ispirava al modello Giapponese.
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